La “Leggenda Maggiore” scritta da san Bonaventura, biografia di san Francesco d’Assisi, racconta la nascita di quello che sarebbe diventato uno dei più importanti elementi identitari dell’Italia, e in generale del mondo cristiano: il Presepe.
Francesco era appena reduce dal viaggio romano in cui aveva ricevuto la sanzione papale alla sua Regola, con la bolla di papa Onorio III, il 29 novembre 1223. Al pontefice aveva chiesto di poter rappresentare la Natività del Signore, un’idea suggestiva che aveva in mente da quando aveva visitato Betlemme nel suo viaggio in Terrasanta, tre anni prima. Il Papa gliel’accordò.
All’epoca, specialmente in Francia, era costume rappresentare scene dalle Scritture sotto forma di sacro teatro. Anche se in Italia non era ancora un’abitudine diffusa, è probabile che il Poverello d’Assisi fosse a conoscenza di questo uso d’oltralpe. Noi oggi potremmo tranquillamente definirle “rievocazioni storiche”, un termine che se rende l’aspetto spettacolare delle rappresentazioni, non dà il giusto risalto al valore spirituale che simili riti avevano per il popolo, la cui vita era impregnata di sincera fede.
Arrivano le statuine
Il presepe statico, invece (anche qui, potremmo attualizzarlo come “diorama sacro”), sarebbe arrivato di lì a pochi anni (il più antico presepe ligneo rimasto è bolognese, risalente probabilmente al 1291, e a Roma ce n’è uno del 1289 ad altorilievo, opera di Arnolfo di Cambio), mentre la sua ulteriore evoluzione fino alla forma attuale giunse con la Riforma Cattolica, quando la sacra rappresentazione divenne un elemento fisso in tutte le chiese italiane e si diffuse ben presto anche nelle case. Autore di questa innovazione fu san Gaetano Thiene (1480-1547), compatrono di Napoli, introdotta con l’approvazione del Papa durante il Concilio di Trento. San Gaetano aveva avuto un’estasi durante una meditazione a Roma, nella basilica di Santa Maria Maggiore. In questo tempio è ospitata la reliquia della mangiatoia, in quello che è considerabile l’antenato della rappresentazione di Greccio di san Francesco: la riproduzione di una grotta voluta da papa Sisto III nel 432 per ospitare la reliquia, tanto che un paio di secoli dopo la chiesa assunse il nome di Sancta Maria ad Praesepem, ossia, Santa Maria alla Mangiatoia.
La tenerezza: ciò che non avevano gli antichi
Questo elemento è essenziale per comprendere il valore non solo religioso del presepe, ma identitario: la rappresentazione della tenerezza della Natività è un elemento essenziale della nostra civiltà mediterranea, cattolica, italiana. L’evo antico era stato se non crudele, indifferente verso i bambini: la sorte orrenda di Astianatte figlio di Ettore è il feroce contraltare alla scena di commozione che Omero ci mostra prima della partenza di Ettore per il suo scontro mortale con Achille. Il Medioevo invece, con l’introduzione del Mistero della Natività porta alla nostra civiltà l’elemento della tenerezza. La stessa cavalleria trasforma l’eroe classico – un po’ predone, un po’ pirata, rodomonte e violento – nel paladino, dedito alla difesa dei più deboli e soprattutto dei bambini e delle donne, verso le quali l’amore diviene cortese, sublimato e accostato al modello celeste della Vergine Maria. L’innovazione portata dal cristianesimo nel mondo classico si riallaccia poi con le origini pastorali e contadine dell’alba della civiltà, quella mitica Arcadia o la Saturnia Tellus in cui nasce il mos maiorum romano. San Giuseppe, lavoratore, uomo timorato di Dio, dotato delle virtù della pietas, della fides e della gravitas, ricuce quel rapporto che la società antica aveva interrotto con il lavoro, affidato agli schiavi, e che invece nei tempi più arcaici era emblema di dignità del cittadino (si pensi all’esempio di Cincinnato). Il popolo, insomma, torna ad avere i suoi… santi in paradiso dopo secoli di sostanziale relegamento ai margini della storia.
Dai Sigillaria al presepe cristiano
L’italianissimo presepe
Il presepe era dunque l’oggetto identitario giusto al posto giusto. Gli italiani del Medioevo e della Riforma si riconoscevano in quella rappresentazione sacra. Le chiese si riempivano di presepi che gli italiani – allora maestri d’arte – realizzavano nelle forme più raffinate e esso fece la sua comparsa nelle case di nobili e ricchi borghesi. La rappresentazione della Notte Santa avveniva per lo più nel costume locale e ben presto lo scenario ideale del presepe fu essenzialmente il borgo appenninico, il basso napoletano o i carrugi genovesi, oppure una scena fra le rovine romane, luoghi dove normalmente venivano realizzate le stalle dal popolino. Era insomma una rappresentazione di se stessi, identitaria nel più puro senso del termine. Gli italiani portavano la Natività nei loro paesi, nei loro borghi. Anche teologicamente, ai fatti, esattamente come la Transustanziazione ripete in ogni messa il mistero dell’Eucarestia replicando l’ultima cena, il presepe (naturalmente fatte le debite proporzioni teologiche) ripete la nascita del Salvatore, rendendo ogni cittadina una Betlemme e ogni casa una grotta della Natività.
Un gesto di affermazione identitaria tale che i cattolici in tutto il mondo rappresentano la nascita di Gesù con i loro usi e costumi tanto che non è affatto blackwashing vedere in Africa la Sacra Famiglia rappresentata con la pelle nera, ma un sincero atto di pietas e di affettuosa devozione.
Nemici del presepe, nemici di se stessi
E invece – qui veniamo al punctum dolens – nell’Italia del XXI secolo, si fa la guerra al presepe. Come la si fa alla bandiera, all’inno di Mameli, alle poesie mandate a memoria o alla cucina tradizionale. C’è sempre un qualche motivo progressista per cui ogni aspetto identitario di un paese dovrebbe essere contrastato. Scuse speciose e paralogismi il cui scopo finale univoco è quello di colpire il DNA di una nazione per disgregarlo. Sempre meno scuole preparano i presepi, sempre più amministrazioni rinunciano o impediscono l’allestimento dei presepi, sempre più politici criticano la spesa di denaro pubblico per l’acquisizione di presepi artigianali.
Contro il presepe si scagliano i laicisti, con la scusa che l’Italia sarebbe “un paese laico” e che quindi non dovrebbe conservare i suoi elementi identitari a carattere religioso. Come se dovessimo smettere di leggere l’Iliade e l’Odissea perché parlano degli Dei antichi, solo perché oggi quasi nessuno è più pagano.
Contro il presepe si scagliano i malati di “accoglienza”, secondo i quali esso sarebbe “irrispettoso” delle religioni degli immigrati. Rovesciando così il criterio secondo cui se un immigrato viene per integrarsi non è l’autoctono che deve adattarsi a lui, mentre se viene per restare ospite, no è il padron di casa che deve cambiare le proprie abitudini.
Contro il presepe si scagliano i radical chic, quelli che “il presepe è roba provinciale” e vogliono fare “i moderni” e perciò si mettono in testa le corna da renna con le luci a led. Le corna in testa, e già abbiamo detto tutto.
Contro il presepe si scagliano i livorosi nemici della famiglia, con le ironie blasfeme su san Giuseppe o sulla “maternità surrogata” della Vergine, ignari del fatto che per la teologia cristiana, al contrario, l’Onnipotente dà granitica manifestazione della sua predilezione per l’ordine naturale della famiglia da volere per il proprio figlio incarnato due genitori che fossero l’esempio di tutte le virtù.
Cosa unisce tutte queste categorie (a cui si possono aggiungere gli ignavi, coloro che rinunciano a questo elemento identitario solo perché lo ritengono “passato”)? Il rifiuto reciso, rabbioso, autolesionista di una parte di loro stessi. Le loro radici, il loro DNA culturale. C’è un tocco di patologico in questo odio, come del resto è ampiamente dimostrato esser patologica ogni manifestazione di oicofobia, odio della propria casa, della propria nazione, delle proprie origini.
Il presepe infatti è attaccato per un solo motivo, che riassume tutti quelli elencati qui sopra, ripetuto fino alla noia dall’inizio di questo articolo: è un pilastro identitario di tutto ciò che è più bello della civiltà italiana. Innanzitutto la fede sincera e ingenua del popolo, per chi ne possiede il dono. Ma anche chi non è toccato da questa Grazia, non può non vedere in quel piccolo diorama sacro ogni migliore lato dell’italianità: la celebrazione del lavoro e della vita quotidiana, sia come rappresentazione, sia nella maestria per la sua realizzazione; la consacrazione della famiglia con la tenerezza verso la madre e il bambino e la protezione del padre e capofamiglia; l’universalità dei suoi principi, religiosi o profani, che infatti possono essere declinati a qualunque latitudine e longitudine dell’orbe terracqueo.
Dunque chi è nemico del presepe è nemico della fede, del bello, dell’universale, dell’identità nazionale, del lavoro. Chi odia la tradizione del presepe sotto sotto odia le proprie stesse radici. In poche parole, chi è nemico del presepe, è nemico dell’Italia e nemico di se stesso.
Questo articolo è stato pubblicato da CulturaIdentità dell’8 dicembre 2023