Nel bel paese, patria del diritto, neanche le prime piogge arrestano la smania giustizialista dei suoi abitanti. Tranquilli, però! In questo torrido autunno, a essere chiamati a render conto delle loro colpe non sono politici, cardinali, industriali, grandi finanzieri ma imputati eccellenti che appartengono al nostro passato. In occasione dell’anniversario centenario di Caporetto, i rigori della giustizia retrospettiva si sono diretti contro Luigi Cadorna, comandante supremo dell’esercito italiano nella prima guerra mondiale, sostituito da Armando Diaz dopo la disfatta di Caporetto, e incolpato di essere stato un “generale macellaio” che mandò inutilmente al massacro le sue truppe destinate a essere trucidate dalle nuove armi di distruzione di massa. Quest’accusa è oggi nuovamente sollevata da uno scrittore di successo, ma digiuno di storia, come Ferdinando Camon, accompagnato da uno stuolo di chiassosi emuli che pretendendo, con un giudizio sommario, di cancellare il nome di Cadorna dalla toponomastica delle città italiane.
Ma se la storia, come disse Croce, deve sforzarsi di essere non “giustiziera ma giustificatrice”, allora bisognerà, pure, che il verdetto su Cadorna si sostanzi di ragioni storiche più circostanziate. Nessuno nega, infatti, che la pratica dell’attacco frontale per grandi masse, teorizzata dal generale, in suo scritto del 1898 e applicata nelle undici battaglie dell’Isonzo, provocò un inutile dispendio di vite umane. Bisognerà aggiungere, tuttavia, che durante il primo conflitto mondiale, nessun esercito era preparato a risolvere il problema rappresentato dal muro di fuoco che le armi automatiche avrebbero opposto all’attaccante. Basterebbe ricordare, in tal senso, i massacri cui andarono incontro le inutili cariche della cavalleria germanica del settembre 1914 e poi le prime fasi dell’offensiva della Somme (luglio – novembre 1916), durante la quale gli inglesi avanzarono in colonne compatte, a passo da parata, sotto il fuoco della fucileria e delle mitragliatrici tedesche.
Nessuno mette in dubbio, certo, la scarsa sensibilità dimostrata da Cadorna per il materiale umano posto al suo comando, controbilanciata, tuttavia, dalle sue grandi qualità di organizzatore che riuscirono a costruire quasi da zero un apparato militare in grado di reggere l’urto delle forze avversarie. Né ovviamente è possibile negare che la sua convinzione che l’unità di comando fosse assolutamente necessaria alla vittoria lo portò a praticare una conduzione totalitaria della guerra, che non doveva tollerare intromissioni nelle trattative diplomatiche e ancor più nelle operazioni belliche da parte del governo al quale Cadorna rinfacciò, non senza ragioni, la lentezza a comprendere le nuove esigenze del conflitto che lo rendevano inidoneo a rivendicare l’effettiva direzione della guerra. Eppure questa tendenza, che avrebbe potuto fare di lui una sorta di caudillo italiano, fu rivendicata a suo merito da un intellettuale democratico, come Gaetano Salvemini, quando invitò a non dimenticare che «la maggioranza giolittiana della Camera, la quale non aveva voluto la guerra, pur votandola, stava in agguato per ricondurre al potere Giolitti, affinché facesse una pace separata», concludendo che «in quelle condizioni non c’era scelta: o Cadorna con tutti i difetti, o Giolitti con la pace di compromesso».
La vera prova a discolpa del processo Cadorna è, però, un’altra e consiste nella sua indubbia capacità di concepire la guerra da un punto di vista politico e non esclusivamente militare. Dote, questa, che lo condusse a predisporre uno schieramento difensivo in grado di proteggere la Lombardia da un possibile attacco proveniente dalla Confederazione Elvetica che pure aveva dichiarato la sua neutralità. Questa misura, a torto ritenuta inutile e dispendiosa, trova oggi la sua giustificazione, in alcuni documenti conservati nell’archivio di Berna, dai quali si ricava che lo stesso governo svizzero era preoccupato da questa eventualità. Come avrebbe scritto lo stesso Cadorna nelle sue memorie, «data la grande prevalenza numerica tedesca dei cantoni svizzeri (18 su 22) e la conseguente notevolissima maggioranza tedesca nell’esercito era da temere che una istintiva simpatia per la causa degli Imperi centrali potesse condurlo a forzare la mano al governo federale e costringerlo a schierarsi a fianco di Austria e Germania». E ancora un’altra prova principe a discarica del generale, disceso dal più puro lignaggio risorgimentale, sempre paradossalmente ignorata nei talk show di queste settimane, fu che, dopo Caporetto, a battersi nelle brillanti azioni di contenimento, culminate nella «battaglia d’arresto» del 27 novembre, che azzerò tutto l’attivo strategico dell’avanzata austro-germanica, fu l’esercito forgiato dal cattolico, conservatore, autoritario Cadorna, senza il quale il massone, liberaleggiante, accattivante Diaz non avrebbe potuto cogliere il frutto della vittoria di Vittorio Veneto.
Eugenio Di Rienzo, Corriere della Sera, 27 ottobre 2017