Siamo arrivati quasi alla fine del penultimo anno del centenario della Grande Guerra. In Italia piuttosto svogliatamente, e c’è da prevedere che ci sarà un sussulto solo per ricordarsi, tra breve, di Caporetto. Molto avrebbe potuto e dovuto essere fatto dal ministero della Pubblica istruzione per ricordare nel modo migliore il profondo intreccio tra vita intellettuale e artistica ed esperienza bellica, ma è difficile aspettarsi adeguate iniziative da chi due anni fa (Miur, Nota prot. n. 3401 del 19 maggio 2015) invitava le istituzioni scolastiche regionali a celebrare il Centenario del 24 maggio aprendo col riferimento ad una «data [che] rappresenta l’inizio di una pagina buia della nostra storia». Ma qui non è di questo che vogliamo parlare. Non senza rapporti con l’interventismo degli intellettuali e degli artisti, vi è una storia poco nota che riguarda la cultura italiana e la Grande Guerra, ed è quella dell’attiva partecipazione ad essa degli esoteristi. Ed è questa storia che vorremmo raccontare.
Intanto, è bene ricordare che l’esoterismo è ormai entrato a livello internazionale nella storia delle idee e nella stessa storiografia nazionale, come dimostrano gli Annali 21 e 25 della Storia d’Italia Einaudi, dedicati a La Massoneria (2006) e all’Esoterismo (2010), entrambi a cura di G. M. Cazzaniga. Tuttavia pure in queste due opere della Grande Guerra non si dice granché, e perfino il ruolo della massoneria in questa importante vicenda non trova adeguata trattazione, mentre la ha per ciò che riguarda l’irredentismo prebellico. Ma qui non è neanche della massoneria, il cui impegno di fatto non ebbe alcun risvolto da dirsi realmente “esoterico”, che intendiamo parlare, pur se in una certa misura si ha a che fare anche con essa.
Tutto ebbe inizio alle Giubbe Rosse?
Vi è ormai tutta una serie di studi rigorosi (v. ad es. F. Giorgio, Roma Renovata Resurgit, Il Settimo Sigillo, 2011) che evidenziano come nella storia italiana si siano di tempo in tempo manifestate correnti esoteriche rifacentesi all’ermetismo ma anche alla tradizione romana, e però datesi pure il compito, nei secoli della frammentazione politica e del dominio straniero, di riportare l’Italia alla sua unità “augustea”. E se “unitarista” fu anche la massoneria italiana dall’età napoleonica in poi, in ciò deve vedersi pure l’influsso in essa di tali correnti. E basterebbe pensare al documento carbonaro del 1821 intitolato “Patto d’Ausonia”, prefigurante un’Italia con Roma capitale e comprendente penisola e isole con tutti i territori già veneziani e Trieste e Fiume, per capire come la Grande Guerra dovesse essere voluta quale coronamento di un progetto concepito da lunghissimo tempo.
In età giolittiana, nella Firenze delle “Giubbe Rosse”, appare un giovane musicista calabrese, come venuto dal nulla. Si chiama Amedeo Rocco Armentano (1886-1966) ed entra nella massoneria fiorentina nel 1907. Ma ARA, così sarà pure conosciuto, ha in proprio, in campo esoterico, qualcosa di più: è il depositario di un insegnamento segreto, proprio ad una tradizione squisitamente italica, pitagorica. Un’antica torre sul mare, la Torre Talao, nella nativa Scalea (Cs), è, dal 1913, la “rocca” della Schola Italica, con le sue pratiche. Verso il 1910 circa il maestro conosce ed inizia Arturo Reghini (1878-1946), matematico, anche lui massone, amicissimo di Papini. Nel 1912 Armentano e i suoi discepoli entrano nel Rito filosofico italiano di Eduardo Frosini (1879-?) per dare un più ampio respiro alle loro idee, anche quelle storiche e politiche, che si esprimono nell’articolo di Reghini “Imperialismo pagano”, che appare nel 1914 sulla rivista La Salamandra. «Imperialismo Pagano – dirà poi ARA – non significa un ritorno al Paganesimo, ma alla Romanità, cioè a quell’idea dell’Unità che nacque in Roma ma che è universale ed eterna». Da qui «un movimento riallacciantesi sul serio all’antica sapienza pitagorica, occidentale e, più che mediterranea, tirrenica».
Ekatlos e la Grande Orma
Già nel 1913 Reghini ha presente che è vicino un grande conflitto europeo, ma Armentano pare averlo già previsto molto tempo prima. E in quello stesso anno, in un altro milieu esoterico, a Roma, accade pure qualcosa di straordinario, se dobbiamo credere alla relazione su una serie di eventi accaduti tra il 1913 e il 1923 che è pubblicata con il titolo “La Grande Orma”. La scena e le quinte e con la firma “Ekatlos” venne poi pubblicata nel 1929 sulla rivista Krur, diretta da Julius Evola. Ekatlos scrive: «Sulla fine del 1913 cominciarono a manifestarsi segni che qualcosa di nuovo richiamava le grandi forze della tradizione nostra. Questi segni ci furono direttamente palesi». Racconta dunque del ritrovamento, in un antico sito romano e in seguito a indicazioni pervenute per vie misteriose, di uno scettro e di una benda con i segni di un rituale. Eseguito «per mesi e mesi, ogni notte, senza sosta», il rito avrebbe visto accorrere «forze di guerra e forze di vittoria». «La guerra immane, che divampò nel 1914, inaspettata per ogni altro – spiega sempre Ekatlos – noi la conoscevamo. L’esito, lo conoscevamo. L’una e l’altro furono visti là dove le cose sono, prima di esser reali. E vedemmo l’azione di potenza che una occulta forza volle dal mistero di un sepolcro romano».
Vi è chi ha voluto vedere, nascosto dietro il nome Ekatlos il principe Leone Caetani (1869-1935), insigne islamista, deputato democratico costituzionale tra il 1909 e il 1913, poi vicino al socialista interventista Bissolati e volontario lui stesso nel 1915, ufficiale nell’artiglieria di montagna in Cadore fino al 1917. Più sicura sembra peraltro l’identificazione dello stesso aristocratico romano con un altro esoterista, autore nel 1910, con il nome di “Ottaviano”, di tre scritti per la rivista Commentarium, espressione della Fratellanza di Miriam, fondata nel 1896 dall’ermetista Giuliano Kremmerz (1861-1930). Che comunque la relazione di Ekatlos provenisse dall’ambito kremmerziano ne è prova il fatto che a consegnarla ad Evola nel 1929 fu la nobildonna Camilla Calzone Mongenet, discepola di Kremmerz. Significativo, in ordine alla Grande Guerra, che la Mongenet, come emerge dalle carte di un processo del dopoguerra in cui ebbe come avvocato difensore Farinacci, si ritenesse una sorta di madrina mistica dei combattenti. Non è molto chiara la posizione di Kremmerz sulla guerra, ma se sappiamo per certo, come scrisse Reghini, che era «un buon italiano», è anche vero che in una sua lettera ai discepoli del 1° giugno 1917 palesa più larghi sentimenti umanitari ed esprime il suo sconforto per «i sanguinosi risultati dell’ora presente». Pure tra i suoi discepoli troviamo però volontari in guerra, come il tenente pugliese Giovanni Bonabitacola (1880-1945), che poi dal 1921 guiderà la Miriam romana. Dalla migliore storia della Miriam in circolazione (www.giulianokremmerz.it/STORIA/HOME_Storia.htm) apprendiamo peraltro che per la salvezza dei Fratelli al fronte «Kremmerz trasmise il rito del Pretium, forse di origine romana, comunque antichissimo ed assai complesso. Il rito funzionò perfettamente: ai Fratelli che furono chiamati in guerra fu consegnata la scheggia rituale e grazie al suo potere tornarono tutti illesi, ad eccezione di un fratello che comunque fu soltanto ferito».
Volontari per il fronte partono anche Armentano e i suoi. Armentano è in Cadore con gli Alpini, e alpino è pure uno dei suoi primissimi e fidati discepoli, Giulio Guerrieri, che a Parigi aveva, come del resto lo stesso Armentano, stretto rapporti amichevoli con quello che diventerà più tardi il più famoso esoterista del Novecento: René Guénon. Lo stesso Gran maestro del Rito filosofico, Eduardo Frosini, si arruola volontario, ma finirà poi prigioniero degli austriaci. Reghini si vede invece più volte respinta la domanda di arruolamento, e solo nel febbraio del 1917 viene finalmente ammesso all’Accademia militare di Torino, finendo poi al fronte come sottotenente del Genio. Ma Reghini ha attivamente operato fin dal 1914 per l’intervento. Già nel settembre di quell’anno, nell’articolo “Sempre Avanti” de Lacerba di Papini, aveva invitato monarchia e governo a rompere la neutralità e ad entrare in guerra contro l’Austria per guadagnare le «terre irredente» e stabilire l’egemonia italiana sull’intero Adriatico. Sempre nel 1914, allorché Giovanni Amendola, massone ma anche vicino alla teosofia, è assunto al Corriere della Sera, che la direzione di Luigi Albertini indirizza su posizioni interventiste, Reghini invita il politico napoletano a recarsi da Armentano a Scalea per concordare linee comuni d’azione. Nel 1915 lo troviamo in prima fila nel «radioso maggismo»: è lui che – come racconterà il suo confratello ed amico Giulio Parise – «al termine di una dimostrazione sul Campidoglio, alzata una bandiera, condusse la folla al Quirinale a chiedere e ad ottenere la dichiarazione di guerra».
«Sono io a far paura alla morte»
Al fronte non mancano esperienze legate al vissuto spirituale della scuola armentaniana. ARA stesso, in una sua lettera dal Cadore, scrive: «Io non posso morire, non debbo morire. Molte cose iniziate mi aspettano per essere finite. […] La morte mi è passata tante volte vicina senza toccarmi, adesso credo essere io a farle paura. […] La vittoria è certa perché i nostri soldati la vogliono, perché noi la vogliamo con tutto il nostro sangue». Reghini, quando ancora è a Firenze, nel luglio 1915, scrive al suo maestro dicendogli di essere riuscito a vederlo al fronte grazie ad un esperimento di magnetizzazione su un confratello, fenomeno i cui particolari ARA confermerà. Più avanti, anche lui al fronte, Reghini gli racconterà di «qualche cosa a cui preme che io resti in questa vita», e del suo talismano, che «quando lo porto non mi succede niente». Il pitagorico fiorentino, verso la fine del 1917, mentre è addetto alla fonotelemetrica in Val Lagarina, sperimenterà pure alcuni suoi “poteri” a fini militari. Armentano, tuttavia, già nella primavera del 1916 ha dovuto lasciare il fronte per una cardiopatia. Il peggio però per lui viene nel marzo 1918, quando è arrestato e rinchiuso nel carcere militare di Vibo Valentia con l’imputazione di tradimento. È un’accusa totalmente falsa, che arriva dall’ex sodale del Rfi Guido Bolaffi, il quale si vendica così dell’espulsione per indegnità dal Rito, accusando ARA di avere, dalla Torre Talao, fornito aiuto ai sottomarini tedeschi nel Tirreno. Solo nel luglio 1918 il maestro calabrese verrà pienamente scagionato dalle accuse, ma rimanendone fortemente amareggiato.
Il 1917 è l’anno di Caporetto. Reghini scrive ad Armentano il 10 novembre: «Il 1917 è stato come tu predicesti un anno terribile. Speriamo nel poi». Alla terribile disfatta di Caporetto si legano peraltro altri eventi che ci riportano al dominio esoterico o magico. A Roma, sul Palatino, cuore sacrale della civiltà romana, proprio nel 1917 l’archeologo Giacomo Boni ha costruito un’ara graminea con sei strati di zolle erbose, quattro festoni di lauro, le sagmine di olivo e le corone e i nastri rosso sangue di toro. Nelle sue intenzioni, come spiegherà l’allieva e biografa Eva Tea, è «il simbolo dell’ara ideale, dove ciascun italiano avrebbe dovuto sacrificare il meglio di sé per le fortune del paese». Boni è allora l’archeologo italiano più famoso nel mondo, a lui si devono scoperte come quella del Lapis Niger nel Foro (1899), ma non è un archeologo qualunque. Boni ha una concezione vivente della romanità e sente da sempre la sua vita di studioso accompagnata da «voci arcane» (sono parole sue), e lo stesso Benedetto Croce lo definirà dall’«aspetto tra di mago e di veggente». Interventista, amico di D’Annunzio, si era anche lui prodigato fin dall’inizio del conflitto, avendo molteplici competenze tecniche, per venire incontro alle esigenze delle truppe alpine, foggiando pure per loro indumenti mimetici ed impermeabili atti a sopportare il freddo, con elmetti di pelle lanata d’agnello che ricordano i copricapi dei signiferi delle legioni romane. E pure le nuove legioni romane ebbero la loro tristissima Canne: «La notte del 23 ottobre 1917 – racconta sempre la Tea – un vento gelido abbatté l’ara graminea negli orti farnesiani. In quell’ora medesima, il nemico entrava in Italia per la porta di Caporetto»! Di Caporetto parla anche la “relazione” di Ekatlos: «1917. Vicende varie. E poi il crollo. Caporetto. Un’alba. Sul cielo tersissimo di Roma, sopra il sacro colle capitolino, la visione di un’Aquila; e poi, portati dal suo volo trionfale, due figure corruscanti di guerrieri: i Dioscuri. Un senso di grandezza, di resurrezione, di luce. In pieno sgomento per le luttuose notizie della grande guerra, questa apparizione ci parlò la parola attesa: un trionfale annuncio era già segnato negli italici fasti».
Già il 24 maggio del 1918, per l’anniversario della nostra entrata in guerra, Armentano invia a Reghini un biglietto con su scritta una sola parola «VITTORIA!». Il 21 aprile di quello stesso anno, mentre le nostre truppe contengono sul Piave il nemico, Boni ha colto alle pendici del Palatino un segno tanto più fausto in quanto giunto il giorno stesso del Natale di Roma: demolendo la torre medievale dei Frangipane – famiglia che si vantava capostipite della casa regnante d’Austria, gli Asburgo – Boni rinviene il frammento marmoreo di una Nike. Che la Vittoria gli appaia dinanzi dai resti distrutti di una torre riferibile a quella dinastia il cui ultimo imperatore, Carlo d’Asburgo, ha chiamato gli italiani «nemico ancestrale», riconnettendosi così idealmente ai barbari nemici di Roma, è per Boni un omen certo: «Athena-Nike. Simbolo augusto dell’intelligenza vittoriosa sulla forza bruta». La lieta scoperta lo induce a ricostruire l’ara sul Palatino. Nel luglio 1918, dopo l’epica “Battaglia del Solstizio”, Reghini può già scrivere al suo maestro: «Godo nel pensare alla tua gioia per la vittoria grande, da te predetta, voluta e possiamo ben anche dire preparata; perché questa morale, questa coscienza è opera nostra, è frutto del nostro lavoro e della nostra predicazione incessante da dieci anni in qua» (tutte le citazioni dall’epistolario Reghini-Armentano ci vengono dai libri Il figlio del Sole, di R. Sestito, e A. R. Armentano: Massime di Scienza Iniziatica, a cura dello stesso Sestito, Ignis 2003 e 1992).
Quella vittoria venne pochi mesi dopo, e divenne poi anche il nome di tante bambine italiane, ignare di portare un nome che era pure quello di una dea di un culto remoto, una dea che svetta ancora in cima a molti nostri monumenti ai caduti, ma che non ha più neanche il diritto di dare il suo nome a una festa. E questo forse gli esoteristi profeti e operatori della vittoria non lo avevano previsto. Ma questa è un’altra storia, che dipende da un’altra guerra e da una amara sconfitta, e forse anche dalla scomparsa dei nostri “magi”.
di Sandro Consolato da Tempi.it del 18 ottobre 2017
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