La divergenza di opinioni tra Cellini e l’aretino a proposito del collocamento di un catafalco in onore di Michelangelo Buonarroti sfociò in insulti ed ingiurie da parte dello scultore. E Giorgetto il botolo si vendicò a freddo relegando nelle Vite l’irascibile avversario tra gli artisti “minori”.
Come molte querelle, anche questa parte in modo sommesso, con un timore espresso da don Vincenzo Borghini (sacerdote, priore dell’Ospedale degli Innocenti e luogotenente della fiorentina Accademia del Disegno) che, riferendosi a Benvenuto Cellini, il 22 marzo 1564 scrive a Giorgio Vasari: “già veggio che Benvenuto comincia a intorbidare”; ma presto arriveranno parole pesanti come pietre.
La storia dell’arte è da sempre accompagnata da invidie e polemiche come dall’ombra. Vi sono casi, però, in cui la posta in gioco per gli artisti è di primaria importanza, o almeno tale da giustificare anche il ricorso a mezzi estremi. Come nel caso dell’agognato ingresso della professione nel privilegiato novero delle Artes liberales, e cioè l’affrancamento da una posizione di subalternità rispetto alla poesia, con il conseguente superamento della condizione di artigiano relegato tra le arti meccaniche.
Intanto, in attesa dell’auspicata emancipazione, si consuma una guerra fratricida sotto forma di paragone tra pittura e scultura; entrambe impegnate a sminuirsi reciprocamente i meriti per meglio primeggiare. La disputa invade l’Europa del XV secolo per esplodere, comunque mai del tutto sopita, in due diverse occasioni nella Firenze di Cosimo I de’ Medici.
Se proprio si dovesse individuare un responsabile, colui che da posizione autorevole dà fuoco alla miccia, allora questi è il “filosofo” Benedetto Varchi. Colpevole, con le sue Lezioni tenute nel 1546 all’Accademia Fiorentina (una delle quali inequivocabilmente intitolata Qual sia più nobile, o la scultura o la pittura), di aver dato stura e nuovo corpo cinquecentesco alla “disputa certo bella e difficilissima” (scrive il Pontormo interpellato) per determinare una supremazia. Ciononostante, la conclusione alla quale giunge la riflessione – organizzata da Varchi come una sorta di inchiesta in cui coinvolgere per la prima volta anche gli autori più rappresentativi (tra questi Michelangelo, Bronzino, Cellini, Vasari e Pontormo) – è salomonica: esse costituiscono un’unica arte e “conseguentemente tanto nobile l’una quanto l’altra”. Ma chi, solo alcuni anni dopo, protesterà a gran voce la superiorità della scultura fornendo linfa infuocata a una nuova disputa destinata a degenerare in ruvida polemica, è l’irascibile Cellini.
Il 18 febbraio 1564 muore a Roma Michelangelo. Per Cosimo la circostanza richiede una solenne celebrazione e allo scopo l’Accademia del Disegno, alla sua prima iniziativa pubblica di rilievo, nomina subito un comitato composto da Ammannati, Bronzino, Cellini e Vasari. Si tratta di discutere delle modalità con cui celebrare l’evento, e infatti le discussioni non mancheranno.
Il progetto elaborato dal luogotenente Borghini (“Ora, come ho detto, ci penserete un po’ voi; che a me basta muover certe cose, e voi le terminerete”) e da Vasari, prevede l’erezione di un maestoso catafalco nella navata centrale di San Lorenzo: una costruzione piramidale con cinque statue; Pittura, Scultura, Poesia e Architettura collocate agli angoli del primo piano, e la quinta, la Fama, al vertice. Un tributo alle arti nelle quali Michelangelo si era espresso in modo tale da meritarsi l’appellativo di divino.
Nell’orientamento del catafalco, a Pittura e Scultura viene riservato il posto d’onore, cioè il lato rivolto verso l’ingresso della chiesa, però con la Scultura collocata a sinistra. Cellini, irritato dalla posizione, protesta e perora la causa della sua arte: “Alle quali parole il detto Priore con molto maggior fratesco furorerispose: Voi state freschi, scultori: io voglio così et non vi mangerete questi pittori, i virtuosi pittori”. Al colmo dello sdegno per l’affronto subito, lo scultore lascia il comitato e denuncia il fatto dando alle stampe un breve testo, Sopra la differenza nata tra gli scultori e pittori circa il luogo destro stato dato alla Pittura nelle essequie del gran Michelagnolo Buonarroti.
Qui, a sostegno dell’accusa rivolta alla coppia Borghini-Vasari di parlare di cose che non conoscono (“cicalare”), fa capolino il primo animale del singolare bestiario che caratterizzerà buona parte della polemica: “cicalare si è il cigolare degli uccelli, il quale non ha tuono nessuno né con nulla si accorda”. Ma Cellini, non pago, rincara la dose con le Rime: “Mi noia sol de’ Nocenti ’l Priore, / e l’empio botol suo crudel Giorgetto: / par che sol questi Iddio abbia eletto / per far nel mondo d’ogni sorte errore”.
Insomma, per lo scultore la questione è chiara: Vasari, ridotto a Giorgetto e botolo, è uno stolto strumento nelle mani del suo consigliere teorico Borghini. Ormai roso dalla rabbia, Benvenuto non si limiterà ad attaccare i due diretti responsabili, e nei Sonetti sempre dedicati al primato della scultura sulla pittura, piattonerà anche il poeta Anton Francesco Grazzini detto il Lasca (“Così d’ogni giudizio ha spento gli occhi, / simile a talpe, a lombrichi, a ranocchi. / Via, pedanti capocchi!”), reo di aver parteggiato per la pittura, non risparmiando neppure Giovan Maria Tarsia (“privi dei colori e delle stelle; così son questi imbrattator di carte”), autore dell’Orazione scrittaper le esequie di Michelangelo.
Nel frattempo Borghini, per nulla impressionato dall’avversario considerato un “pazzo spacciato”, andrà dritto per la sua strada fino alle onoranze funebri del 14 luglio. Limitandosi, nella corrispondenza privata, a definire Cellini con nuovi epiteti che arricchiscono il bestiario inaugurato dallo scultore: “cagnaccio da beccaio”, “bestiaccia”, “porco”, “bestia asinina”; e a suggerire a Vasari di depennare l’odiato Benvenuto dalla nuova versione delle Vite, che vedrà la luce nel 1568. Però ha il sapore di un invito rivolto senza troppa convinzione, più simile all’irritato sfogo con un amico.
Va solo notato che nonostante il “fratesco furore”, la questione specifica e l’accusa d‘incompetenza devono averlo colpito, a tal punto da indurlo a rimeditare sull’arte e in modo particolare sul rapporto tra pittura e scultura. Le conclusioni alle quali giunge a un mese dalle celebrazioni michelangiolesche (ormai “mezzo dottorato”), sempre e comunque a favore della pittura, occuperanno gran parte della sua opera Selva di notizie.
Dalla mischia sembra scomparso Vasari. Invece, con rara dimostrazione di pazienza e lungimiranza, egli consumerà la sua vendetta così come si consuma un piatto freddo. D’altronde conosce bene e da lungo tempo Cellini, non lo ama e sa bene di essere ampiamente ricambiato (troppe le manifestazioni in tal senso, comprese le pagine cariche di disprezzo a lui dedicate dallo scultore nella celebre autobiografia, la quale s’interrompe però prima di questa polemica).
Tuttavia Vasari, nella sua veste di storico dell’arte, non escluderà Benvenuto dal novero degli “eccellenti” degni di una biografia: non sarebbe stato corretto metodologicamente ignorare uno degli autori più significativi dell’epoca, né facile da giustificare. Saprà fare di meglio (o peggio). Come quella volta che, insieme ai suoi aiuti, decora in Palazzo Vecchio la sala detta di Cosimo I (1559-63 circa), e in omaggio alla politica culturale del duca realizza un tondo che raffigura artisti e architetti della corte in circolo intorno al loro signore.
In primo piano si distinguono chiaramente Vasari (in basso e con lo sguardo rivolto verso l’esterno), l’architetto Battista del Tasso e il progettista di fontane Tribolo, entrambi con i modellini esemplificativi del loro operare, e via via tutti gli altri. Naturalmente trova posto anche Cellini, ma “qui lo storico aretino si produsse in un piccolo capolavoro di cattiveria e di intelligenza. Benvenuto è rappresentato sul fondo, in ultima fila, mentre ci guarda obliquamente con aria irosa e sospettosa” (Antonio Paolucci).
Chi di spada ferisce di spada perisce, sembra pensare Giorgetto: e così il creatore del Perseo finisce, dopo l’episodio del tondo, nuovamente in balia di un autore vendicativo ma sottile. Proprio lui, membro dell’Accademia del Disegno eppure distante da tale istituzione saldamente nelle mani di Borghini e Vasari, si riscopre nelle Vite dell’aretino senza una vera “vita”, perché inserito in un capitolo collettivo espressamente dedicato agli Accademici. Come se non bastasse, gli spettano solo poche e sbrigative righe, con un parziale riferimento alle opere e, soprattutto, nessuna descrizione delle stesse.
Insomma, nel trattamento riservatogli dal suo avversario lo scultore diventa un “minore” – come nel tondo di Cosimo I, così all’interno dell’Accademia – e la sua irruente individualità è quasi ridotta a macchietta: “il quale è stato in tutte le sue cose animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo, e persona che ha saputo purtroppo dire il fatto suo con i prìncipi, non meno che le mani e l’ingegno”. Consapevole di averlo fortemente ridimensionato, Vasari fornisce una scaltra motivazione: “non ne dirò qui altro, atteso che egli stesso ha scritto la vita e l’opere sue […] con molto più eloquenza et ordine che io qui per aventura non saprei fare”, ma suona stonata come un pretesto ben escogitato.
Al dunque, e con il senno di poi, dall’intera vicenda uscirà un solo sconfitto: Benvenuto Cellini, e non per mano dell’odiato Vasari, ma a causa della propria manifesta incapacità di comprendere, o anche solo intuire, il ruolo che le accademie svolgeranno al fine di affrancare l’arte dalla secolare soggezione.