I bari della Storia. Ecco come gioca sporco il Politicamente Corretto distruggendo il passato

By Dicembre 31, 2017RASSEGNA STAMPA

C’è chi vorrebbe la distruzione del Colosseo quadrato nel quartiere romano dell’EUR e di molti altri edifici risalenti al ventennio. La lista sarebbe così lunga – si pensi ad esempio a molti uffici postali o anche alla sola università la Sapienza – che numerosi costruttori potrebbero fregarsi le mani annusando abilmente l’affare. Gente pronta ad abbattere la storia, l’arte, a farne macerie, come suggeriva peraltro scelleratamente pochi mesi orsono il New Yorker. C’è anche chi si accontenterebbe di avere uno scalpello per rimuovere questo o quel simbolo. Se si dovessero demolire gli edifici in base ai trascorsi di chi li ha costruiti, dovremmo iniziare dal Colosseo vero e proprio: un “modus operandi” non molto diverso, in fin dei conti, da quello di chi bruciava i libri. Nel frattempo, ad abradere il passato artistico intorno al quartiere Coppedè, sta provvedendo il Comune di Roma, nonostante ripetuti appelli di personaggi di spicco a porre termine alla dilapidazione del patrimonio della città. Sempre negli Stati Uniti c’è stato chi ha proposto di rimuovere le statue di Cristoforo Colombo come se egli stesso fosse stato a conoscenza di quanto sarebbe accaduto in seguito, mentre in Francia la vittoria di Carlo Martello a Poitiers contro l’esercito arabo di Al Andalus nel 732, cancellata da molti libri di storia, è in buona compagnia!

Ricordo ancora quando, durante il primo anno di studi universitari, scoprii che Papa Paolo IV ordinò a Daniele da Volterra di coprire con sottili panni i nudi di Michelangelo nel “Giudizio Universale”, il pittore fu quindi soprannominato “Braghettone”, era da poco finito il Concilio di Trento. Sono passati più di 450 anni e le dinamiche del dibattito su quale memoria (?), artistica, storica, mozzata (?), non sono mutate molto. I ricordi sono in fin dei conti un po’ come la famiglia, solo noi possiamo decidere se e come parlarne, perché solo a noi veramente appartiene, guai a chi sconfina.

Sino a venti anni fa, il dibattito sulla cancellazione del passato pesava in Germania per i motivi storici noti a tutti, anche la cinematografia ne parlava spesso, più in quel paese che altrove. Non che i libri di storia fossero immuni da selezioni pensate appositamente o che mancassero accese discussioni; coinvolgevano però i professori, universitari e non, e pochi altri. Oggi, invece, pare sia diventato un problema di tutti, un po’ “alla carlona” però, forse perché la politica utilizza la memoria come grimaldello del consenso o come collante di un passato ormai evanescente. Ci si sente così fragili che il portato dell’altro va abraso persino nell’architettura e nell’arte, proprio come accadeva in un passato più remoto grazie al Braghettone. L’apologia perpetrata da certi gruppi politici o sedicenti tali, non deve far cadere in eccessi opposti, altrettanto sconclusionati. Accade in Italia, e anche in altri paesi, che la querelle diventi infuocata. Laddove poi i testi non sono carenti, ci pensano alcuni professori delle scuole di secondo grado a cassare il sapere; vale anche per la filosofia, disciplina che vede Sant’Agostino, San Tommaso e Heidegger finire inspiegabilmente nel dimenticatoio.

Non a caso, in Francia, “La Nouvelle Revue d’Histoire”, nel numero di settembre-ottobre 2017, ha dedicato le sue primissime pagine alla battaglia per la storia, la memoria e l’identità. Questioni irrisolte un po’ ovunque in occidente, chissà se anche altrove, e che sarebbero più interessanti se venissero veramente restituite alla storia – non me ne voglia nessuno – la più scientifica delle materie umanistiche! Bisogna conoscere date, nomi, fatti, guerre, regimi, ecc.: una massa critica indispensabile e imprescindibile perché nulla, o quasi, si può dedurre aneddoticamente.
Oltre a dedicare il numero al tema più inflazionato del ventesimo secolo, cioè il nazismo, il fascicolo si apre proprio con tre articoli sui temi citati, non senza trascurare, ovviamente, l’eterna diatriba sui programmi scolastici e mettendo a confronto i manuali del 1945 con quelli odierni: se ne scoprono davvero delle belle!

Il giornalista Philippe Conrad biasima apertamente gli storici Lucien Febvre e Marc Bloch per aver fondato le Annales nel 1929: una corrente che avrebbe privilegiato la storia economica, sociale e quella della mentalità. Studi in cui si proponeva una storia quantitativa a detrimento degli eventi e delle istituzioni politiche che li avevano determinati. Responsabile di tali disgrazie è considerato anche Fernand Braudel che in “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” (Einaudi 1953) segue le stesse orme contribuendo a causare la sciagura degli anni settanta: la riforma Haby (1975). Allo studio cronologico si inizia a prediligere un approccio trasversale e tematico…impregnato di pedagogismo. Nelle scuole primarie l’insegnamento della storia viene inserito tra le “attività ludiche”, sino all’appello nel 1979 di Alain Decaux, un noto membro de l’Académie: dovrà attendere ben cinque anni per vedere riapparire la storia nei programmi di scuola elementare grazie alla riforma del nuovo ministro Jean-Pierre Chevènement.

A trent’anni di distanza, prosegue Conrad, il clima è peggiorato: «…La debolezza dei programmi ufficiali, il vuoto dei manuali e la concorrenza che le memorie fanno alla storia, sono all’origine di un panorama ampiamente devastato. La seconda guerra mondiale è praticamente ridotta a persecuzioni e massacri…Altri passati, quelli dei popoli colonizzati…sono entrati in una sorta di “concorrenza vittimista”. Al contrario, la rivoluzione francese, nel bene e nel male, o il ricordo della Comune nel 1871, sono scomparsi dagli schermi». C’è bisogno di una “scuola di lucidità” perché la storia è un insostituibile esercizio di discernimento. Se la prende con tutti Conrad, arriva a criticare la storiografia marxista della rivoluzione francese cara a Albert Souboul e François Furet considerando i loro studi basati su una griglia artatamente contemporanea. Se l’insegnamento della storia è un cumulo di macerie, il successo delle commemorazioni, da quelle della rivoluzione francese nel 1989 a quelle per il bicentenario dell’insurrezione vandeana nel 1993, incoraggiano a sperare in nuovi e portanti venti.
Invece di commemorare, non sarebbe meglio cogliere le date al balzo studiando o ristudiando? E poi come è possibile celebrare la cancellazione della memoria? Si festeggia la violenza?

Un altro storico, Wetzel (agrégé, inspecteur pédagogique régional honoraire), elenca in dettaglio tutti i nomi depennati dai manuali dal 1945 ad oggi, oltre a Carlo Martello: Vercingetorige, Luigi XI, Gutenberg, Marignano, Calvino, Sully, Luigi XIII, Richelieu, Luigi XV, Rousseau, Austerlitz, Waterloo, Luigi XVIII, Napoleone III, Marx, ecc.. Ricorda poi che la grande guerra viene studiata solo come guerra totale, esperienza di combattimento, senza mai citare Pétain o Clemenceau e neanche l’Alsazia-Lorena. Il problema, sostiene Wetzel, è che chi fa le riforme non conosce la storia. Nel 2011 Sarkozy affermò in tivù che nel sedicesimo secolo il concerto delle nazioni mondiali era rappresentato da Italia, Spagna, Germania, Inghilterra e Francia. Mentre è noto che l’unità italiana e tedesca sono avvenute nella seconda metà dell’800. Lo stesso François Bayrou nel 1990 – poi ministro dell’istruzione all’epoca di Balladur (1993-1995) – aveva parlato dei poteri del re e del parlamento nel 1780, mentre allora di parlamenti ce ne erano ben tredici e i loro poteri erano per lo più giudiziari. Ma le sorprese non si esauriscono: nell’attuale programma scolastico francese per il quarto anno delle scuole superiori il ventesimo secolo viene chiamato “dei totalitarismi”, tuttavia non si parla né della Cina a partire dal 1949, né della Corea del Nord e neanche di Cuba, del Vietnam o Cambogia e Laos. Non solo, nel 2011 l’affermazione del mondo islamico, nelle sue differenti forme, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, è scomparsa dai libri di storia ed è stata rimpiazzata da un tema che la maggioranza dei ragazzi non è in grado di affrontare in sede di esame di maturità (baccalauréat): socialismo, comunismo e sindacalismo in Germania dal 1875.

Se lo storico Conrad sostiene molte cose sensate, cade nell’errore di ritenere lo studio della storia nazionale più esclusivo che prioritario, prendendosela con la scomparsa delle frontiere che definisce anacronistica, ma valorizzando al tempo stesso la memoria collettiva, quindi contraddicendosi. Sostiene, infine, che l’utopia del “cittadino del mondo” abbia sostituito quella dell’avvento redentore del proletariato. Wetzel è invece più accorto, afferma che la storia nazionale non possa mai essere confinata alla Francia proprio perché semplicemente collegata a quella di altri Stati e fa appello a non trasformare i manuali in romanzi. Chiude poi il suo articolo con una splendida citazione di Victor Duruy, poi ministro della pubblica istruzione all’epoca di Napoleone III :«La storia è il tesoro dell’esperienza universale. So bene che l’umanità non ricalca mai le stesse strade e quella che segue è un ponte già crollato dietro di lei. Ma le rovine create le servono come nuovo materiale per ciò che va costruito. Nel presente, ciò che è più vivo è proprio il passato, talora anche quello più lontano…Ascoltate bene, e sentirete nel fondo della vostra anima, nelle vostre opinioni e convinzioni, la sorda eco dei secoli».

Di vecchie cancellazioni – Braghettone docet – sa qualcosa l’università di Roma La Sapienza che ha di recente celebrato il “restauro filologico” (non ideologico quindi) del murale dell’Aula Magna “L’Italia fra le arti e le scienze”, affrescato nel 1935 dal fascista Mario Sironi. Non si tratta di esaltare il passato, ma più semplicemente di non abraderlo, e non c’è destra o sinistra che tenga, ci sono le fonti, sempre e prima di tutto, se le si manomette come si pretende di studiare la storia? Senza l’accertamento dei fatti la storiografia non esiste. Commemorare e studiare non sono sinonimi, ma è giusto e comprensibile gioire quando si riporta alla luce un sapere cassato per decenni, se non per secoli. Si teme, o forse si finge di temere, ancor’oggi il fascismo che è stato un autoritarismo, invece il peggior totalitarismo è oggi il consumismo, ci sembra mite, ma non lo è affatto! Se ne era accorto il lungimirante Pasolini quando quarant’anni fa affermava che il laicismo consumistico ci avrebbe trasformati in bruti e stupidi automi adoratori di feticci, ma dirlo non rientra nel manuale del politically correct di nessuna compagine parlamentare. Anzi, si elargiscono oboli per aumentare i consumi, una ostinata rincorsa al possesso, come come ricorda ne “La roba” Giovanni Verga.
L’insospettabile Armando Saitta in uno dei suoi volumi più noti “Avviamento allo studio della Storia”, così spiegava :«Chi deliberatamente modifica i fatti, li sopprime in parte, ecc., non è uno storico, ma un falsario, e pertanto il problema non si pone più, giacché il nostro discorso si limita a chiarire la natura della conoscenza storica la quale nulla ha a che vedere con i bari, siano essi dei mascalzoni comuni o dei grandi politici o degli entusiasmanti letterati». Da leggere e rileggere :«Il fatto compiuto blocca sì le alternative – ad eccezione di una – e male fa lo storico a recriminare sulle alternative non giunte a maturità, ma vi fu un tempo – per usare le parole di E. H. Carr – in cui tutte le alternative erano ancora aperte e lo storico deve valutare perché tutte, tranne una, furono chiuse e quale fu il “costo” di questa chiusura: in altri termini, quali punti di arretratezza, di debolezza sorsero per effetto dell’eliminazione di certe alternative».

È proprio vero: la memoria non può fare concorrenza alla storia, perché per sua natura è intimamente selettiva!

Veronica Arpaia dal blog del Corriere della Sera “La Nostra Storia” del 30 dicembre 2017

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