Quaranta anni fa iniziava in Italia la fortunata «invasione» delle TV (e dei gusti giovanili) da parte dei cartoni animati giapponesi. Nel gennaio 1979 sociologi, psicologi e moralisti si stracciarono le vesti contro Goldrake&C. al punto che un deputato – il demoproletario Silverio Corvisieri – giunse a investire giornali e Parlamento della questione… Il pubblico decretò però il successo dei cartoni made in Japan. Che continua ancora oggi, facendo apparire ancora più lontana e «storica» quell’ondata di psicosi collettive che rivelava un lato del nostro Paese (e non solo…) fatto di strani pregiudizi
Ci può essere un piccolo Savonarola nelle persone più insospettabili. Un demonietto che spinge a giudicare chi si diverte e a cercare se non sia possibile trovare un antidoto allo spasso altrui. Ce lo ricorda uno spettacolo teatrale messo in scena in occasione del trentennale della prima messa in onda di «Goldrake» sulla TV italiana: un balzo indietro che Daniele Timpano, autore ed attore del monologo «Ecce Robot – Cronaca di un’invasione», fa compiere alla platea riportandola a quel 4 aprile 1978 e all’infinita scia di polemiche che ne seguirono. Tutto è dunque iniziato alle 18.45 di quel martedì sull’allora Rete 2, quando per la prima volta compare su un teleschermo italiano una serie robotica giapponese a cartoni animati (anime, nella lingua del Sol Levante): si tratta di «Atlas Ufo Robot», italianizzazione del serial di Go Nagai (al secolo Kiyoshi Nagai, nato nel 1945 a Wajima) «Grendizer», poi più noto da noialtri come «Goldrake». Fu un successo senza precedenti. Non era il primo anime giapponese a raggiungere l’Italia: nel maggio 1976, il Primo Canale aveva già trasmesso la coproduzione austro-tedesco-nipponica «Vicky il Vichingo». Dopo una pausa di due anni, due mesi prima di «Atlas-Ufo Robot» era stato trasmesso sempre sul secondo canale, «Heidi» («Alps no Shojo Haidi», ovvero «Heidi, la ragazza delle Alpi»), una delicata storia tratta dal romanzo omonimo di Johanna Spyri, e realizzato da Isao Takahata con la collaborazione di Hayao Miyazaki (coppia che poi darà vita al celeberrimo Studio Ghibli). Ma «Vicky» ed «Heidi» – dal soggetto, ambientazioni e temi molto europei – non ebbero il risalto mediatico che invece ottenne il più esplosivo «Grendizer». Innovativo ed entusiasmante, «Goldrake» fu una vera e propria macchina per fare audience, tanto in Italia, quanto in Francia, dove venne trasmesso qualche mese più tardi e dopo non poche perplessità. I giovani furono calamitati da questa novità e in brevissimo tempo esplose una vera e propria Goldrake-mania: una impressionante produzione di merchandising (per lo più taroccato), le sigle del programma divennero hit e perfino i giochi dei bambini (allora ancora si giocava per strada e nei parchi) ne furono modificati. In Francia Antenne 2 raggiunse il fantascientifico share del 100% grazie a «Goldorak» (nome francese della serie, da cui «Goldrake» in italiano) e per il Natale del ’78 i genitori furono costretti addirittura a ricorrere al mercato nero per assicurare ai figli giocattoli legati al robottone giapponese, poiché la domanda superò ogni aspettativa vuotando i magazzini. I ragazzi si immedesimavano nel protagonista Duke Fleed (in italiano e francese Actarus) e le ragazzine se ne innamoravano. C’era qualcosa di male in tutto questo? Con tutta probabilità no, però qualcuno cercò di trovarcelo a tutti i costi. Tanto da noi quanto dai nostri cugini d’oltralpe la paura del nuovo galvanizzò opinionisti e sociologi, pedagoghi e giornalisti, facendo in breve fioccare una pletora di articoli e studi «scientifici» che immancabilmente finivano per collegare la trasmissione di questo programma per ragazzi a tutte le nefandezze del mondo d’allora, dalla droga alle Brigate Rosse. Se la Francia si distinse per la produzione di saggi accademici (di quelli che fanno benedire i tagli alla ricerca scientifica), fu in Italia che si toccò il fondo e nel giro di pochi mesi, fu nientemeno che un parlamentare indipendente di sinistra – Silverio Corvisieri – a dar fuoco alle polveri dalle pagine de «La Repubblica».
Corvisieri – classe 1938 – era allora militante dell’estrema sinistra. Comunista di Democrazia Proletaria, ex Avanguardia Operaia, redattore de «L’Unità», deputato e membro della Commissione di Vigilanza RAI. In anni più vicini a noi si sarebbe poi convertito alla storiografia pubblicando volumi sulle vicende meno note della Resistenza romana, in particolare a quella formazione – Bandiera Rossa – che finì pressoché sterminata alle Ardeatine dopo essere stata sgominata (dietro misteriosa delazione) dalle polizie fasciste e tedesche. Ma prima di darsi alla storiografia, Corvisieri aveva pensato bene di cimentarsi con la sociologia e la pedagogia, e – interpretando in maniera abbastanza savonaroliana il suo ruolo nella Commissione – si era scagliato con un articolo dai toni apocalittici contro la «degenerazione» della TV italiana, di cui Goldrake era il prototipo. L’articolo, infatti, si intitolava «Un ministero per Goldrake», e apparve su «La Repubblica» il 7 gennaio 1979. Corvisieri aveva sfogato così la sua frustrazione per essere rimasto inascoltato in Commissione e alla Camera dai suoi colleghi, forse troppo occupati da altre questioni all’ordine del giorno in quell’inverno 1978-‘79: le Brigate Rosse che ammazzavano a destra e manca, la crisi del petrolio. Il vulnus denunciato da Corvisieri era nel generico disimpegno qualunquista della nostra televisione di Stato, ma che con un cartone come «Goldrake» aveva passato il segno. Infatti «Goldrake» aveva la pretesa di voler trattare aspetti come la difesa della pace, la lotta fra bene e male e l’eroismo guerriero con toni che a Corvisieri proprio non andavano giù: «Goldrake deve sempre affrontare qualche nemico spaziale estremamente malvagio […] Si celebra dai teleschermi, con molta efficacia spettacolare, l’orgia della violenza annientatrice, il culto della delega al grande combattente, la religione delle macchine elettroniche, il rifiuto viscerale del “diverso” […]. In quale modo un genitore può fronteggiare con i poveri mezzi delle sue parole la furia di Goldrake?».
Poco tempo dopo fu l’ex compagna di Palmiro Togliatti e futura Presidente della Camera, la deputata comunista Nilde Iotti (che già negli anni Cinquanta aveva visto il Male Assoluto nei fumetti) ad etichettare come «fascisti» i cartoni giapponesi, chiudendo il cerchio e suggellando quello che Corvisieri aveva fatto solo intravedere fra le righe. Goldrake era «antidemocratico e violentissimo», come Corvisieri avrebbe pervicacemente confermato in un’intervista a «Kappa Magazine» vent’anni dopo.
Un’esagerazione? Senz’altro. Ma questa esagerazione all’epoca smosse tutta l’armata dei mai domi Savonarola italiani, che nel breve volgere di un anno riuscirono a sollevare un polverone. Terminata il 6 gennaio 1980 la trasmissione di Goldrake già il 21 dello stesso mese è addirittura l’ammiraglia Rai Uno a trasmettere un nuovo cartone robotico: si tratta di «Mazinga Z». «Mazinga Z» era il prototipo e capostipite di tutte le serie robotiche ed uno degli anime più amati in Giappone, ma da noi giunse dopo i suoi più perfezionati successori ed epigoni, e non ottenne un gran successo. Ma la proiezione sul Primo Canale gli diede abbastanza visibilità da scatenare le ire di un gruppo di genitori di Imola che, nell’aprile 1980, lanciò una vera e propria crociata. Si raccolsero seicento e rotte firme e si fece un esposto agli allora ministri delle Poste e Telecomunicazioni e della Pubblica Istruzione, alla RAI e all’ANSA, chiedendo l’interruzione delle trasmissioni dei cartoni animati giapponesi in televisione. Il problema era non solo pedagogico, ma – ovviamente – politico (anche se questo punto era l’in cauda venenum dell’esposto): i cartoni giapponesi erano «guerrafondai», lanciavano un messaggio «diseducativo» nel quale la scienza era al «servizio della distruzione». «Davanti a certi programmi per l’infanzia colpisce un uso della scienza e della tecnica, della stessa fantascienza legata alla guerra; strumenti sempre più moderni al servizio di una società dominata da lotte feudali e nelle mani di un uomo che regredisce dominato da bassi istinti di avidità e di dominio». Naturalmente, che il messaggio fondamentale delle serie robotiche dell’epoca fosse esattamente l’opposto, poco importava.
E c’era chi ai benpensanti teneva bordone sulla stampa nazionale, principalmente (ma non solo) di sinistra (con la parziale e lodevole eccezione di «Lotta Continua» che invece titolò «Bambini tenete duro che arriva Goldrake contro i genitori babbalei»): «Il Resto del Carlino» titolava «Topolino è una lettura sana ma Goldrake è il Diavolo»; scandalizzata «L’Unità» del 13 aprile si domandava «Goldrake contro i bambini?», ed «Oggi» soffiava sul fuoco con «Questo Mazinga robotizza i nostri ragazzi». Enzo Tortora invitava i Savonarola imolesi alla trasmissione televisiva «L’altra campana» del 18 aprile 1980, dove – senza contraddittorio e con la claque – i genitori-crociati non ebbero difficoltà a far passare il loro messaggio. Anche lo scrittore Alberto Bevilacqua ne fece una questione politica: i cartoni giapponesi erano diseducativi perché davano allo spettatore «la giustificazione che soltanto i suoi divi siano in grado di liberare i grandi dal terrore di rapine e di BR», continuando poi con la «disumanizzazione» di Mazinga per finire al fatto che, per colpa dei robottoni giapponesi, i figli degli italiani si sarebbero inevitabilmente drogati… Nascevano allora tutti gli stereotipi, alimentati dal pregiudizio razzista contro il Giappone: un mondo disumano e meccanizzato, dove perfino i cartoni non sono disegnati a mano ma col computer (un falso), un mondo dove si celebrano sogni superomistici, violenti, oppure dove sono «tutti orfanelli» e «piangono sempre» e i sentimenti venivano «portati all’eccesso». La ciliegina sulla torta arrivava quando si tirava fuori l’immancabile «e sono stati traumatizzati da Hiroshima».
E forse sullo sfondo c’era anche qualche reminiscenza del Maccartismo: negli anni della Guerra Fredda i film di fantascienza americani dietro gli UFO simboleggiavano la paura dell’invasione comunista. Di conseguenza se Goldrake combatteva gli UFO, di sicuro non era un «compagno»… La psicosi fu tale che cartoni apertamente pacifisti (la serie dei «robottoni» di Go Nagai, che comprende oltre a Goldrake, Mazinga Z, il Grande Mazinga, e i due Jetter Robot, si conclude con queste macchine da guerra, vittoriose sugli invasori spaziali e infernali, che vengono rinchiuse nel Museo della Pace) furono tacciate di essere guerrafondaie e fascistoidi. L’apparente suddivisione elementare fra buoni e cattivi fu equivocata per «paura del diverso» e «razzismo», ignorando totalmente che in Goldrake c’era una visione adulta, complessa, tormentata e quasi «revisionista» dei vilains. Paradossalmente, proprio in quei mesi faceva la sua (breve) comparsa in RAI la serie «Capitan Harlok» («Uchuu kaizoku Kyaputen Harroku», Capitan Harlock, pirata dello Spazio) nella quale le scene più politicamente esplicite vennero censurate per l’edizione italiana. Insomma, se da un lato ci si lamentava di un presunto disimpegno, dall’altro si tagliava a man bassa per la paura di far parlare di politica i ragazzi. Ma il peggio («il peggio del peggio del peggio del peggio del peggio…» come dice icasticamente Timpano) doveva ancora venire…
E venne: il 13 agosto del 1980, quando su «Oggi» un editoriale di Nantas Salvalaggio – classe 1928, cofondatore di «Panorama» – titolava a tutta pagina: «Goldrake ammazza dal video, nessuno si prova a fermarlo». Si trattava di una forzatura basata su un vero fatto di cronaca. Salvalaggio raccontò di un bambino di dodici anni impiccatosi con una corda nel goffo tentativo di imitare i voli di Goldrake. Il fanciullo «ipnotizzato dal satanasso giapponese» non aveva saputo distinguere fra realtà e fantasia, e si era ucciso. Il pezzo terminava con un immaginario colloquio con un parlamentare democristiano, dipinto come un distratto mammone, incapace di prendere la giusta decisione di censurare quegli orrori giapponesi. La leggenda del bambino morto per imitare i cartoni animati in realtà si basava sulla reale tragedia di un ragazzino davvero deceduto per gioco. Ma la meccanica era stata diversa: la piccola vittima era rimasta soffocata da una maschera di stoffa e fil di ferro che si era fabbricata da solo. Troppo poco per impressionare il pubblico,
Caso strano, nel 1980 fu proprio un intellettuale di sinistra – Gianni Rodari – che dalle pagine di «Rinascita» difese a spada tratta «Goldrake»: «Bisognerebbe vedere oggettivamente, liberandoci dai nostri pregiudizi personali, che cos’è per un bambino l’esperienza di Goldrake […] Bisognerebbe chiedersi il perché del loro successo, studiare un sistema di domande da rivolgere ai bambini per sapere le loro opinioni vere, non per suggerire loro delle opinioni, dato che noi spesso facciamo delle inchieste per suggerire ai bambini le nostre risposte […] Invece di polemizzare con Goldrake, cerchiamo di far parlare i bambini di Goldrake, questa specie di Ercole moderno». Lo scrittore aveva colto nel segno. Con Rodari si schierarono Oreste del Buono, Nicoletta Artom e pochi altri. Intanto, in quei mesi, i giornali lanciarono una specie di sondaggio fra Mazinga e Pinocchio, dove il burattino perse con 35 mila preferenze contro 40 mila. Si moltiplicavano nel frattempo le lettere dei ragazzi, addirittura di intere classi, ai giornali: «ve la prendete coi robot, ma poi lasciate in giro i giornaletti porno» si lamentavano i bambini d’allora con gli adulti. Tuttavia, la maturità dei ragazzi degli anni Ottanta non riuscì ad impedire che due mannaie diverse colpissero i loro eroi dopo un decennio d’oro: la prima fu la censura imposta dalle associazioni genitori a RAI e Fininvest. Nella TV di Stato i cartoni giapponesi scomparvero pressoché del tutto, mentre nelle reti berlusconiane finirono letteralmente trifolati per cancellare ogni pruderia. Poi, nel 1990, arrivò come una bomba la legge Mammì, che vietava la pubblicità nei cartoni animati e faceva chiudere le TV locali. Le serie giapponesi divennero economicamente non convenienti e furono sostituite dai telefilm adolescenziali made in USA, che forgiarono una nuova generazione di figli della TV. Il vento cambiò solo a metà anni Novanta, quando i bambini del 1978, cresciuti e con qualche soldo in tasca, riuscirono lentamente ad imporre al mercato di nuovo i propri gusti. Quello che non ebbero da piccoli come cittadini, lo ottennero da grandi come consumatori.
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L’ORIGINALE DI QUESTO ARTICOLO VENNE PUBBLICATO SU STORIA IN RETE n. 39.
Grazieper la segnalazione, Francesco!