Per comprendere la fine ingloriosa di una delle più gloriose esperienze imprenditoriali della storia d’Italia, bisogna risalire a ragioni private e pubbliche, a contrasti familiari ma anche a responsabilità gravi della politica, incapace di partorire una visione industriale all’ altezza di quell’ azienda e del Paese. Da questa prospettiva, Le passioni degli Olivetti (Aragno, pp. 126, euro 18) di Nerio Nesi, saggio genealogico sulla dinastia Olivetti osservata, lungo tre generazioni, da un testimone di eccezione che in quell’azienda ebbe un importante ruolo direttivo, aiuta a spiegare, senza certo giustificare, come sia stato possibile depauperare in pochi anni un patrimonio immenso di conoscenze e di innovazione, un capitale umano e aziendale, oltre che economico.
Determinante, secondo Nesi, fu l’azione, o meglio l’inazione, della politica nella fase più delicata, il periodo di passaggio seguito alla morte di Adriano Olivetti, in cui la guida dell’ azienda fu assunta dal cosiddetto Gruppo di intervento composto da Fiat, Pirelli, IMI, Centrale, Mediobanca, a indiretta supervisione statale. In quella transizione, nonostante a presiedere il gruppo fosse stato mandato Bruno Visentini, vicepresidente della più importante holding dello Stato italiano, l’IRI, il governo di allora – l’esecutivo Moro, il primo di centrosinistra nella storia repubblicana – non fornì all’azienda alcun aiuto.
Non solo: lo stesso Visentini si oppose strenuamente a tutti i piani di innovazione promossi dal figlio di Adriano, Roberto, allora vicepresidente della Olivetti, che intendeva in modo lungimirante spostare il core business dell’ azienda dalla meccanica all’elettronica, aprendola alle nuove tecnologie informatiche. Né Aldo Moro uomo di punta delle Dc e del compromesso storico, né, tanto meno, l’ allora ministro del Tesoro Emilio Colombo seppero invertire la rotta, forse condizionati da pressioni degli Stati Uniti che vedevano in una Olivetti forte una minaccia alla competitività delle proprie imprese.
Esito estremo di una diffidenza, se non ostilità, della politica italiana nei confronti del gruppo di Ivrea, maturata già ai tempi in cui era in vita Adriano che, da impolitico qual era, si sentì sempre un estraneo in Parlamento (al punto che preferiva entrarci dalla porta di servizio anziché dall’ingresso di piazza Montecitorio), e confermata alla morte di quello, allorché al funerale non partecipò alcun esponente dell’ esecutivo, fatta eccezione per un oscuro sottosegretario.
Ma sarebbe riduttivo e disonesto ricondurre il progressivo declino della Olivetti esclusivamente alle omissioni o alle colpe della politica. Influenti, rileva Nesi, furono anche i dissidi familiari che emersero dopo la morte di Adriano quando, come ricordava il figlio Roberto, «l’intenzione di accontentare tutti significò la distribuzione di cariche e quindi di funzioni manageriali ai diversi membri della famiglia, creando la premessa per la ramificazione delle discordie nell’ambito dei più alti dirigenti della società».
Certo, nella mancata formazione di una classe dirigente in grado di sostituirlo, qualche responsabilità ebbe lo stesso Adriano, decisore iper-individualista e autoritario, che non prevedeva meccanismi di divisione o di delega dei propri poteri, accentratore che fece coincidere il destino dell’ azienda con il proprio nel momento stesso (e qua è il paradosso) in cui auspicava una proprietà collettiva dell’ impresa, nonché uomo ostile al cosiddetto “capitalismo dinastico”. La sua stessa successione al padre Camillo avvenne sì nel segno della dedizione filiale, ma anche di una feconda discontinuità, segnata da contrasto di visioni e dalla consapevolezza, da parte del “discepolo” Adriano, di aver superato il “maestro”.
Ancor più nettamente l’ascesa ai vertici aziendali di Roberto rappresentò uno scarto rispetto alla figura paterna, sia per ragioni caratteriali (il figlio di Adriano era molto meno decisore rispetto a lui), sia per il senso della propria missione in azienda (Roberto non era animato da un’ ispirazione quasi religiosa come il padre) sia per scelte strategiche (mentre Adriano rifiutò sempre l’adesione alla Confindustria, il figlio preferì dialogare con le rappresentanze del mondo industriale).
Più probabilmente, tuttavia, la spiegazione della sconfitta del modello olivettiano va trovata nella natura stessa delle politiche industriali del nostro Paese, basate su un capitalismo leggero, quello delle piccole e medie imprese, e non in grado di promuovere o sostenere i grandi gruppi, facenti capo alle grandi famiglie proprietarie. Destinate, loro malgrado, a restare anomalie, eccezionali, ma pur sempre anomalie di breve durata.
Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano del 10 gennaio 2018