La brutta vicenda della recente chiusura del Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci”, e del suo spostamento dalla prestigiosa e centralissima sede di Palazzo Brancaccio, riporta in evidenza quello che ormai appare come un sistematico sabotaggio della posizione internazionale dell’Italia. Per chi non avesse seguito sulla stampa la fine di questo gioiello – forse il più ricco museo orientale d’Occidente, se non fosse che troppi pezzi sono rimasti conservati nei depositi – basti sapere che il museo, 4600 metri quadrati donati al Campidoglio dalla principessa Fernanda Brancaccio, verrà riallestito all’EUR, in 3700 mq condivisi con l’Archivio di Stato, al triplo dell’affitto (2.2 milioni l’anno contro gli attuali 761.333 euro, senza contare i costi dell’intera operazione). La burocrazia trova sempre qualche melliflua spiegazione, anche per le decisioni più irragionevoli. Infatti di fronte all’indignazione di molti – a dir la verità piuttosto debole, chissà che livelli avrebbe raggiunto fosse stato al Governo il centrodestra – si è pensato di organizzare una conferenza stampa la mattina del 1 novembre, giorno di Ognissanti, per spiegare in sostanza che non si poteva fare altrimenti, una volta nel 2016 c’era stato un cortocircuito nel sistema di condizionamento, e poi c’era bisogno di modernizzarsi, il nuovo allestimento all’EUR “consentirà l’integrazione multimediale, la realtà aumentata, le sollecitazioni emozionali, il multilinguismo”. Le date sono importanti, e infatti il 2 novembre, giustamente, il Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci” è morto. Si dice che l’intestazione al grande esploratore italiano rimarrà invariata, ma non si capisce bene come, e dove. Unico fatto certo è che l’Italia, nel momento in cui l’Asia è diventata la maggiore protagonista dello sviluppo globale, rinuncia al suo Museo Nazionale di Arte Orientale, quindi al più prestigioso biglietto da visita nei confronti di tutti i paesi asiatici.
Visto che viviamo in un mondo globalizzato, allarghiamo un momento il nostro campo visivo e immaginiamo un film di fantascienza dove la Francia, nello stesso modo, rinuncia per esempio al suo Musée Guimet. Impossibile. E infatti allargare il campo visivo è fondamentale, perché nessuna “realtà aumentata” o “sollecitazione emozionale” sarà tanto forte da eguagliare il brivido di vedere il proprio Paese su una scacchiera, impegnato in una partita difficilissima dove la competizione è spietata, e in cui le proprie pedine stanno rapidamente scomparendo, una dopo l’altra. Non a caso l’attuale disastro del Museo Orientale è legato a un disastro precedente, quello che ha portato alla sciagurata decisione di liquidare il nostro Istituto per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), erede a sua volta dello storico Istituto del Medio ed Estremo Oriente, l’IsMEO fondato da Giovanni Gentile e Giuseppe Tucci nel 1933. Nel caso dell’IsIAO, l’Italia ha deciso di rinunciare ad avere una sua istituzione di ricerca nazionale sull’Oriente. Sarebbe come se la Francia scegliesse all’improvviso di chiudere la sua Ecole Francaise d’Extreme-Orient, o la Germania tutte le strutture di ricerca che ha sull’Asia. Impensabile. E invece il nostro Paese ha appena ceduto altri spazi ai suoi competitori europei, un’altro cavallo, un’altra torre, un’altro alfiere che abbiamo tolto noi dalla scacchiera, senza che ce li mangiasse nessuno.
Perché? Ci sono forse tra noi dei veri e propri anti-italiani che giocano dalla parte dell’avversario, o si tratta semplicemente dell’opera di giocatori incompetenti? C’è da chiederselo, perché questo pattern è riconoscibile anche al di fuori del contesto accademico. Lo scacco al re sta interessando anche il nostro mondo economico, e alcune componenti dello Stato. Da diplomatici è normale ragionare in termini di scacchiere e pedine, ma sarebbe auspicabile che oggigiorno comincino a farlo tutti. Come cittadini europei, abbiamo ormai compreso quanto ciò che avviene nei nostri Paesi sia il riflesso immediato di una partita ben più ampia, una partita dove la diplomazia è di casa, e deve avere più voce. A differenza di coloro che della politica hanno fatto un mestiere, e la cui sopravvivenza si misura in consensi, teoricamente un diplomatico dovrebbe avere come unico referente lo Stato. Il suo ruolo non è certo quello di compiacere il vertice politico di turno. Al contrario, il diplomatico dovrebbe raccogliere informazioni aggiornate grazie alla rete diplomatica, elaborarle, studiare possibili strategie, fornire elementi al vertice politico, ed eseguire le conseguenti istruzioni. Ma alla base del suo operato, vi è la ricerca dell’interesse nazionale, e quindi occorre assicurarsi che ogni decisione politica da eseguire miri innanzitutto a questo obiettivo.
Una linea così chiara può non piacere ai vertici politici, e non sono pochi i diplomatici che hanno pagato a caro prezzo la loro indipendenza di giudizio. Così nei decenni si è andata affermando anche in diplomazia una corrente più sensibile alle necessità della classe politica, vere e proprie cordate che si fanno portatrici di ben altri interessi: un vago concetto di coesione europea, le esigenze derivanti dalla globalizzazione, fino al dovere di accoglienza nei confronti dei migranti; sono spesso priorità molto generiche che, se comparate con la metodica individuazione dell’interesse nazionale, appaiono – nella migliore delle ipotesi – confuse negli obiettivi. In certe circostanze ci si trova oggi a sostenere nei fori multilaterali alcune posizioni che appaiono in netto contrasto con l’interesse della cittadinanza italiana. Capita addirittura di vantarsi che l’Italia stia guadagnando posizioni in termini di investimenti esteri diretti, quando in realtà ciò significa semplicemente che le nostre industrie, ivi incluse alcune strategiche, vengono acquistate con capitali esteri che – almeno in certi casi – risalgono più o meno direttamente a governi stranieri.
Nel frattempo, si è riusciti negli ultimi anni a indebolire progressivamente quel corpo dello Stato che per sua stessa natura è precisamente destinato alla valutazione dell’effetto delle decisioni politiche interne sulla posizione dell’Italia a livello internazionale: la diplomazia italiana. Negli ultimi dieci anni il personale del Ministero degli Affari Esteri è diminuito del 20%, e la Farnesina ha perso oltre un quarto del suo bilancio, già molto inferiore a quello dei principali partner europei. In tutto, poco più di 6.500 addetti, di cui 900 diplomatici: la metà del personale britannico e francese, il 60 per cento di quello tedesco. Si è fatto di tutto per ridurre le competenze della Farnesina. Nel momento in cui la crisi migratoria è al massimo, alimentata dalla minaccia del terrorismo, si è pensato bene di privare il Ministero degli Esteri di uno dei mezzi più preziosi per il contrasto a questi due fenomeni: la cooperazione allo sviluppo. E’ chiaro che una diplomazia dotata di una sua voce indipendente, e capace di guadagnarsi una sufficiente visibilità, può risultare scomoda. Di qui gli appelli sempre più frequenti alla sostituzione dei funzionari con i cosiddetti “Ambasciatori politici”: in pratica una garanzia perché nessuno possa più opporsi all’esecuzione di istruzioni mirate non all’interesse del Paese, ma esclusivamente alla ricerca del consenso.
In queste condizioni, sarebbe oggi un vantaggio per l’intera collettività dare più voce a quella parte della diplomazia che non ha intenzione di piegarsi a queste logiche autolesioniste. Nessuno oggi può continuare a credere alla narrativa di un’Europa in cui tutti i partner collaborano per un fine comune. Ogni Paese agisce innanzitutto per la difesa dei propri interessi e della propria sicurezza. E’ bene che lo faccia anche l’Italia. Occorre poter contrastare con efficacia gli irresponsabili che stanno facendo a pezzi non solo quei centri di ricerca, quelle eccellenze culturali che oggi assicurano il prestigio internazionale del nostro Paese, ma anche le componenti che ne garantiscono la sicurezza e la sovranità. Per questo serve una diplomazia non solo dotata delle risorse necessarie, ma anche capace di opporre ad una politica velleitaria e a caccia di consensi, una professionalità fondata sulla difesa degli interessi del Paese e del popolo italiano.
di Mario Vattani, da “Il Primato Nazionale” del dicembre 2017